giovedì 17 aprile 2008

Chiamparino “Meno convegni e più mercatini per vincere”

Intervista di Luigi La Spina - La Stampa

Sta, sulla riva della sua isola di sinistra riformista, perplesso. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, vede galleggiare la sua città, immersa nel mare tumultuoso del Nord spazzato dal vento berlusconian-leghista, come un naufrago, rassicurato per lo scampato pericolo, ma ansioso di sfuggire alla assedio delle acque.

La sua faccia di subalpino abituato a controllare i sentimenti non tradisce se l’allegoria lusinghi il suo orgoglio di sindaco che governa una città dove il Pd è arrivato al 40 per cento o possa costituire un segnale di minaccia per il futuro. Poi, con un mezzo sorriso, avverte: «Sì, qui è andata bene, anzi molto bene: siamo avanzati di circa 5 punti rispetto a due anni fa, ma non c’è alcuna garanzia per l’avvenire».

Sindaco, qual è la sua ricetta per il Nord d’Italia? Come si fa a sottrarre voti alla sinistra radicale tra giovani e operai e, contemporaneamente, riuscire a compiere il miracolo che non è riuscito a Veltroni, quello di sfondare anche in larga parte del mondo della borghesia, dell’imprenditoria, del commercio?
«No, non ho ricette da fornire, né consigli a chi ha altri compiti. Da Torino credo di aver capito qualcosa di quello che sta succedendo al Nord e, soprattutto, ho tanto imparato da una grande sconfitta. Quella che subii, il 18 aprile del ‘94, quando, proprio nel collegio di Mirafiori, fui battuto da uno psichiatra di “Forza Italia”, Alessandro Meluzzi. Quel disastro elettorale, del resto, mi confermò nelle impressioni che erano state alla base, un anno prima, dell’esperimento Castellani, con la discussa rottura a sinistra che determinò tale scelta. Ma nei pensieri di quella notte insonne compresi che stava avvenendo una grande metamorfosi nella nostra società e che quel fenomeno rischiava di spazzarci via».

Dalla mitologia classica alla realtà d’oggi, possiamo dire che lei capì perché anche gli operai potevano votare a destra?
«C’è anche questo, ma la metamorfosi è più complessa, perché il radical-populismo, allora come adesso, rischia di sdradicare gli ex partiti di massa da tutti i loro antichi referenti sociali. O si riesce a stare dentro a questa trasformazione, a cercare di controllarla, o si finirà per non essere più riconosciuti interlocutori credibili».

Perché un operaio di Mirafiori si può sentire più tutelato dalla Lega che non dalla sinistra?
«Da molto tempo, il voto non è determinato da appartenenze ideologiche. Se si vede che lo stipendio è basso, i prezzi aumentano, si rischia il posto di lavoro e, magari, che un immigrato ti ha superato in graduatoria per mettere il bambino all’asilo, non c’è fedeltà partitica che tenga. Nella nostra società, la paura di perdere è molto più forte della speranza di acquistare».

Che cosa deve fare il centrosinistra, allora? Rincorrere il populismo?
«No. Ma andare meno ai convegni per pontificare su dove va il mondo e girare più nei negozi e nei mercati. Basta con i salotti radical-chic, dove gli immigrati, certo, non sono anche un problema, dove la sicurezza è garantita da guardie del corpo, dove si può ricorrere agli asili privati e alla sanità privata. Basta con la sinistra che dice sempre no, quella che alla difficile gestione della realtà, quella che esiste davvero non quella immaginaria, preferisce una sterile rivendicazione continua. E, poi, certo, bisogna studiare le alleanze».

Con chi bisogna fare le alleanze?
«Quando un partito, come il Pd a Torino, raggiunge il quaranta per cento dei voti, non si possono escludere pezzi di società importanti, dalla comprensione e dalla rappresentanza. Bisogna intessere una rete di collegamenti con il mondo del commercio, dell’industria, quella grande e quella medio-piccola, della finanza. Ripeto: stare dentro alla grande metamorfosi che ogni giorno trasforma la realtà che ci circonda e non rifugiarsi nell’isolamento della sinistra virtuale».

Non crede che ci voglia anche un profondo mutamento culturale, che la sinistra sembri vecchia, conservatrice, burocratica, oppressiva. Insomma, che appaia contro la modernizzazione dell’ Italia?
«Sì, ma la rivoluzione culturale non la si fa con i libri o con i giornali, ma andando a parlare con i cittadini, sentendo le loro esigenze, comprendendo le loro paure. Faccio un esempio: bisogna ricordare a quell’operaio che, se l’immigrato è in regola e lavora, è giusto che il figlio possa frequentare l’asilo, ma è doveroso che possa farlo anche il suo».

Sempre per restare sul concreto come giudica l’annuncio di Silvio Berlusconi sull’abolizione dell’Ici per la prima casa?
«Per il mio Comune le entrate dell’Ici costituiscono il 10 per cento del totale. Senza quelle somme, dovremo tornare a Roma per pietire trasferimenti di denaro pubblico. Diversamente saremo costretti a tagliare tutta l’assistenza, altro che i “punti verdi” o la cultura. Vedo una contraddizione clamorosa: la Lega, giustamente, vuole un maggior decentramento e il federalismo, anche fiscale. Poi, come fa ad applaudire un provvedimento che ci costringerà a rivolgerci di nuovo al governo centrale per garantire che i Comuni non aboliscano i servizi di assistenza pubblica ai cittadini?».

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