lunedì 21 aprile 2008

La rivoluzione Pedemontana

L'ITALIA CHE CAMBIA. L'area tra Varese e Bergamo
tra Malpensa e Orio al Serio, laboratorio della modernità

Quella piccola grande società dell'"homo padanus"


dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO

MARIO Fusetti, tanto per fare un nome. Se ne sta un po' discosto, al banco del bar nella casa patrizia ben restaurata che a Turate, "comune della Lega" - Turaa, in insubre - accoglie municipio, centro anziani, le feste dei più piccoli. Mario, visto da lontano, appare sereno nel sabato libero dal lavoro dell'officina. Ha un sorriso calmo e beve la sua barbera. Conversa leggero con gli altri artigiani. Quella conversazione dabbene, non interrotta da squilli telefonici, chiacchiere urlate o furenti o lagnose. Niente di trascendentale, per carità. Qualche pensiero marginale, qualche racconto fugace, un moto sfottitorio tra gente che si rispetta. Le parole globalizzazione, mercato, concorrenza incuriosiscono Mario. 

Si avvicina. Ti stringe la mano con la sua mano larga, spessa e dura come pietra. Siede accanto. Vuol dire la sua "perché - è l'esordio - io so come vanno queste cose". Bisogna sapere ora chi è il Fusetti, fabbro ferraio, "artigiano della forgia e dell'incudine", specializzato nella fabbricazione di ferri di cavallo. Un maniscalco, ma non un maniscalco ordinario. Il Fusetti è un campione della mascalcia. Cinquant'anni fa, primo tra tutti al mondo, cominciò a fare i "ferri" in lega d'alluminio. Mario, con il fratello, progettò ferri stampati a benda larga e grossa per i cavalli da concorso e da sella. 

Il loro vantaggio rispetto al ferro classico in acciaio è, sì, nella maggiore leggerezza ma - "tosto" e "morbido" com'è l'alluminio - soprattutto nella maggiore protezione e nella migliore capacità d'assorbire urti e vibrazioni. L'alluminio, per di più, permette al cavallo d'imprimere in poco tempo un'usura "personalizzata" ai ferri. Si consumano e "stondano" in alcune parti maggiormente rispetto ad altre, così da diventare in un certo senso "ortopedici". "Erano ferri che facevamo solo noi, al mondo - dice Mario - Francesi e olandesi ce li invidiavano. Li vendevamo dovunque. Ora sono apparsi le copie cinesi e colombiane del nostro lavoro e io e mio figlio peniamo un po', ma non è quello che importa. Ho ormai 78 anni. Lavoro ancora perché non mi piace fare altro, ma una cosa la voglio dire anch'io. Ci sarà sempre chi copierà quel che fai. Oggi sono i cinesi, domani lo sa Dio chi. Il problema non è questo. Non è solo questo. Il problema più grande è un altro. E' sempre più difficile inventare cose nuove e nuovi modi per produrle, ma dobbiamo farlo se vogliamo stare al mondo. Non si può sperare sempre di indovinarla. Abbiamo bisogno di aiuto. E' questo aiuto che non sentiamo o sentiamo poco". 

* * * 
La "questione settentrionale" - comunque la si voglia chiamare, "malessere del Nord" o trionfo impetuoso della Lega di Umberto Bossi - si può raccontare dall'alto e dal basso. A partire dalle frustrazioni e dalle paure o da un'energia sociale inesauribile, inappagabile ma sotto pressione. La "questione", la si può soffocare o confonderla nel tema monocorde e isterico della "sicurezza" con il consueto corollario di invocazioni sicuritarie a "tolleranza zero" e inaccettabili tassi di xenofobia. O se ne può vedere con realismo e disincanto la modernità; riconoscerne finalmente i protagonisti e il potere assoluto rivendicato da una nuova individualità contemporanea "intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certa della "naturale bontà" dei propri appetiti, bisognosa però di protezione perché incapace di vera solitudine"; pronta a farsi massa e folla non appena i suoi "diritti" appaiono minacciati. 

E' dunque l'homo padanus - l'homo democraticus di Tocqueville sarebbe meglio dire con Massimo Cacciari - il grande assente nel dibattito politico post-elettorale. Ancora oggi il discorso pubblico ne ignora le forme - con venti anni di ritardo rispetto alle ricerche degli analisti sociali, gli studi degli storici, le riflessioni dei filosofi, le indagini dei sociologi urbani - e liquida la consapevolezza che (ancora parole di Cacciari) "tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull'"interazione" e lo "scambio" con quest'individualità". Che non è un'invenzione o uno spettro. E' concretissima, fatta di carne, sangue, desiderio, smarrimento, soggettività. Presenze. Le si può rintracciare in modo clamoroso in quella vasta area pedemontana lombarda tra Varese e Bergamo, tra l'aeroporto di Malpensa e lo scalo di Orio al Serio, "il laboratorio più significativo delle ricadute della modernità - dice Aldo Bonomi - un territorio ove convivono l'intreccio tra ipermodernità, maturità del sistema produttivo, comunità locali di paese e capitalismo personale". 

I numeri che si raccolgono in questo territorio sono impressionanti. 
Quattro milioni e mezzo di abitanti (e "produttori", "utenti", "clienti"). Tre milioni e 100 mila autoveicoli in coda perenne, privi di infrastrutture strategiche: "la strada che non c'è", la Pedemontana lombarda, verrà - se verrà - non prima del 2015 come la Brescia/Bergamo/Milano e il raddoppio della Milano-Brescia. 475 mila imprese. Dieci punti di prodotto interno lordo. 

Cinque distretti industriali. Mobile. Seta. Tessile. Metalmeccanico. Agroalimentare. Informatica. 
Telecomunicazioni. Un milione e 600 mila posti di lavoro. Un serpente ininterrotto di capannoni, megastore specializzati, discoteche, ipermercati, villette con giardino. Una "città infinita" dove spontaneamente si sperimentano, senza i principi ordinatori della politica, alchimie sociali che riscrivono, con mobilità, rapidità, cinismo, individualismo, i codici dell'esistenza e del vivere quotidiano. Una "fabbrica orizzontale", a cielo aperto e senza mura, lunga cento chilometri, frammentata in un pulviscolo di medie e piccole imprese, lavoro artigiano, lavoro sommerso, lavoro nero, lavoro in affitto dove si concentra e sovrappone "il massimo di innovazione e il massimo di mediocrità" e dovunque "capitalisti personali" che chiedono - spiega ancora Aldo Bonomi - "un'affermazione soggettiva, la possibilità di rendere vincente un'idea, un progetto, la propria personale realizzazione in un gioco che mette in discussione la stessa soggettività delle persone, i loro interessi, ma anche i loro gusti, preferenze, perfino i loro affetti e passioni". 

E' in questo caos lavico che gli amministratori della Lega Nord hanno costruito il loro sorprendente successo e conviene chiedersene il perché senza lasciarsi lusingare soltanto dalla ragione più elementare della "protesta", dei borbottii della "pancia", del rancore localistico, della sindrome della paura liquida. Che sembra spiegare tutto e, poco o troppo poco, spiega. 

* * * 

Leonardo Carioni è molte cose nello stesso tempo. Piccolo imprenditore tessile dell'orditura, capannone più grande di quello costruito vent'anni fa dal padre dietro casa (ne mostra con orgoglio la lunghezza delle linee di lavorazione), dodici addetti quasi tutti "di famiglia" se si escludono un paio di immigrati dal Maghreb. Sindaco leghista di Turate, con il 45 per cento dei consensi. 

Presidente della provincia di Como con il 65 dei voti. Carioni è un uomo concreto, essenziale. Se gli si parla del Carroccio più conosciuto e temuto - la Lega della "linea dura contro l'immigrazione" - non si tira indietro, naturalmente. 
Scioglie la lingua nella prevedibile giaculatoria, poi si ferma però e, con una smorfia, avverte che "da queste parti la sicurezza non è tutto. E' vero, alziamo la voce, facciamo la faccia feroce. Anch'io voglio che i vigili urbani abbiano il potere di entrare nelle case degli immigrati per verificare quanti e chi e con quali permessi di soggiorno vi abita. La sicurezza ci permette di stringerci al nostro popolo, di farlo sentire protetto. Ma, detto questo, i veri problemi non finiscono qui. La Lega ha cominciato da qui. Non si è fermata qui. Non so se è chiaro, ma non lo scriva che mi mette nei guai con i miei". 

No, non è chiaro. Per questo va scritto. Dice Carioni (e sogghigna) che, "per fortuna", nessuno ha ancora capito il lavoro degli amministratori della Lega sul territorio. "La nostra gente, smarrita, non ci chiede soltanto di essere rassicurata dinanzi a paesi che non riconosce più e comunità sconvolte dal cambiamento. Certo siamo partiti, venti anni fa, da questi sentimenti prepolitici. La minaccia della secessione è stata figlia di quel tempo. Ma ricordo che Gianfranco Miglio mi diceva di studiare e di capire, di capire e di studiare. E io l'ho fatto. Un po' tutti, in Lega, lo abbiamo fatto. Abbiamo avuto dieci anni per farlo e non abbiamo gettato via il nostro tempo. Sul territorio, al lavoro nelle amministrazioni cittadine, provinciali, regionali, abbiamo capito che la nostra gente ci chiedeva di essere aiutata nei loro interessi, accompagnata a connettersi con il mondo. Ci chiedeva strade, autostrade, aeroporti. Chiedeva, come il Fusetti, intelligenza per innovare i prodotti e i modi di produrli. E noi ci siamo rimboccati le maniche e, passo dopo passo, siamo diventati credibili in questa missione difficile e non soltanto nel più facile lavoro dei nemici dell'immigrazione clandestina. Guardi, come dal basso, stiamo cambiando il volto dell'area pedemontana". 

Anche gli analisti sociali concordano. E' vero, in quel territorio ci sono gli "orfani del fordismo" che devono essere rassicurati; le microimprese "stressate" da un futuro incerto e dai rischi del mercato; gli "spaesati" dalla nuova morfologia urbana e umana delle comunità prealpine e alpine, ma la leva che i giovani amministratori della Lega muovono sono altre. Sono le nuove élites gelose della propria autonomia. Sono nuovi ceti orgogliosi della propria creatività. Sono - élites e ceti - convinti che la loro pretesa di "integrale" libertà debba essere rispettata. Ne chiedono la difesa. 

Come vogliono che sia tutelata l'idea che il proprio particolare interesse sia "universale". Chiedono alla politica soprattutto modernizzazione riconoscendole soltanto "un esercizio di giurisdizione" che consenta il libero gioco delle forze in campo: e che vinca il migliore, il più forte. Pretendono che le funzioni dello Stato siano "servili", per dir così. Siano - come peraltro predicava già Carlo Cattaneo - esclusivamente al servizio delle scelte del cittadino "industrioso", il solo che può garantire benessere a se stesso e, per conseguenza, progresso della società. 
"E' dal basso - dice Carioni - che stiamo cambiando le cose". Non ha torto. 

Il metalmeccanico, ti spiegano, è diventata motonica. La meccanica meccatronica. Gli enti locali, le camere di commercio, le banche popolari promuovono, "dal territorio e sul territorio", connessioni e saperi: le università (Insubria, il Libero Istituto Universitario, in provincia di Varese, il Politecnico di Lecco - Como); centri di eccellenza per la diffusione delle tecnologie. 
Nascono, con il sostegno e la spinta delle amministrazioni locali, consorzi per l'export, per il marketing, per l'innovazione tecnologica, per le innovazioni di stili e prodotti. E' la riduzione completa della società politica nella società civile. E' l'invocazione di una prassi di governo come esclusiva protezione dell'interesse personale dell'homo democraticus. 

Nello spazio vuoto da altre presenze politiche pare muoversi soltanto l'amministratore del Carroccio, il solo attore capace di parlare con crudezza e coerenza questo linguaggio della contemporaneità. 
Roma, la politica, il ceto politico, le sue pratiche, avvistati da qui sono lontani come la Terra è distante dalla Luna. Perché l'homo padanus vive in un permanente presente che non consente - gli è insopportabile - differimenti, ritardi, rinvii, ripensamenti, intrusioni. Per toccarlo con mano bisogna risalire il lago di Como e incontrare, a Musso, quel genio di Meco Lillia. 


* * * 

Meco è un uomo gentile e generoso. Per essere un laghèe, è accogliente e festoso come un mediterraneo. Non accetta di raccontarsi e discutere se non in un piccola casa in pietra accanto al vecchio cantiere in ristrutturazione tra il cimitero e le acque del Lago. Offre salame, formaggio, un bicchiere di vino rosso, frizzante, al gusto di fragola. Meco non è nemmeno leghista. Si definisce "un moderato" con una passione per le memorabilia di Mussolini e un rispetto autentico per tutti coloro che fanno politica. Ma non è questo che conta. Conta che Meco fa le più veloci barche a vela del mondo, le più innovative, competitive, vincenti. 

Per stare soltanto agli ultimi anni: campionato del mondo 2003; Olimpiadi 2004; campionati del mondo 2005, 2006, 2007. Sono barche della classe "Star" (lunghezza fuori tutto 6.92 metri, larghezza massima 1 metro e 73, pescaggio un metro, peso 671 kg). Meco se le cuoce da solo in resine epossidiche, con il figlio Stefano e sette addetti (quattri polacchi), in una vecchia filanda. Ne vengono fuori scafi puliti, leggeri, resistenti, con chiglie a controllo numerico levigate al millesimo di millimetro. Le esporta per il 96 per cento in tutto il mondo, in Nuova Zelanda, in Brasile, negli Stati Uniti. 

Piacevano a Gianni Agnelli. Piacciono a tutti coloro - i migliori - che poi finiscono skipper o tattici sui grandi scafi ipertecnologici dell'America's Cup. Dice Meco che "le cose si fanno con passione o non si fanno". Preferisce parlare del suo mondo, dei suoi molti amici, della sua passione, del piacere che dà la perfezione del lavoro. Se gli parli di Roma, fa spallucce. 

Se gli parli del successo della Lega, gira al largo. Se gli parli delle cose pubbliche, se la sbriga presto: "Vorrei soltanto che non mi facessero perdere tempo". Meco glissa non per riservatezza o scontrosità. Perché, semplicemente, non gli importa. 
Quest'indifferenza è un sentimento ordinato, ponderato, sereno. 
Come molti nell'area della pedemontana, Meco, homo democraticus e padano, si è messo da parte con la sua famiglia e i suoi amici. Si è creato una piccola società a proprio uso. Può abbandonare volentieri la grande società a se stessa. 


(21 aprile 2008)

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