martedì 22 aprile 2008

Le due Italie, la lobby del Sud

di Michele Salvati

Nei commenti dopo il voto sulla grande stampa — ma anche prima, durante la campagna elettorale — non si può dire che si sia prestata molta attenzione al Mezzogiorno: la cosiddetta «questione settentrionale» l'ha fatta da padrona. Prima del voto, i «fucili » di Bossi hanno colpito assai di più di quelli di Lombardo, pur trattandosi, in entrambi i casi, di fucili di legno, di fanfaronate. Dopo il voto, il trionfo della Lega al Nord è stato sottolineato assai più di quello del Pdl al Sud, e in entrambi i casi non si tratta certo di novità: la Lega è tornata ai livelli degli anni 90 e, per il Sud, si tratta di una tendenza già osservata a schierarsi con il presunto vincitore e a contribuire al suo successo. Partendo da un’apparente irrazionalità del voto meridionale, vorrei sostenere una tesi semplice: l'irrisolta questione meridionale—l'unica vera «questione», una tragica spaccatura nella nostra storia unitaria—ha generato negli ultimi due decenni una reazione di rigetto nel Nord che è destinata a rimanere.

Questione antica e reazione recente oggi danno vita a un grave problema nazionale, per il quale non sembra che i partiti a vocazione maggioritaria (e nazionale) abbiano risposte chiare. Per ora, almeno. Irrazionale lo spostamento verso il Pdl di tante regioni meridionali? Apparentemente sì: l'alleanza del Pdl con la Lega è strategica e la Lega non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di ridurre, e di molto, le risorse che lo Stato trasferisce al Mezzogiorno. Ciò sta scritto a chiare lettere nel programma elettorale di questo movimento politico e, per liquidare ogni dubbio, basta scaricare la proposta di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione (federalismo fiscale) approvata il 19 giugno scorso dall'Assemblea regionale lombarda: è un documento ufficiale, non un manifesto elettorale. Se la proposta lombarda diventasse legge dello Stato — e questa sembra essere l'intenzione comune di Lega e Pdl — il taglio di risorse che affluiscono verso il Sud sarebbe forte e la stessa finalità di fornire ai cittadini dell'intero Paese servizi pubblici in quantità e qualità simili sarebbe negata per principio.

E allora perché una gran parte del ceto politico e dei cittadini meridionali hanno scelto il Pdl? Faccio fatica ad accettare un'ipotesi di irrazionalità e propongo una spiegazione alternativa. Da molto tempo i ceti politici meridionali hanno constatato che disporre di voci influenti e di molti parlamentari nella coalizione che sostiene il governo (e un po' per effetto di An, un po' per l'esito delle ultime elezioni, il gruppo parlamentare del Pdl si è notevolmente meridionalizzato) giova ai trasferimenti pubblici verso il Mezzogiorno: se poi giovi al Mezzogiorno, alla soluzione della «questione meridionale», è cosa del tutto diversa. Tale constatazione equivale a scommettere che le bellicose intenzioni della Lega resteranno intenzioni, e saranno frustrate da una potente lobby meridionale: il federalismo fiscale che uscirà fuori dal tritacarne governativo e parlamentare non sarà per nulla simile al disegno approvato dal consiglio regionale lombardo.

Questo devono aver pensato gli elettori meridionali e il ceto politico che ha indirizzato il loro voto. Se la scommessa sia realistica, non lo so. So soltanto che sul federalismo fiscale (e, più in generale, sulla riforma costituzionale) si giocherà una partita di straordinaria importanza: una partita da cui dipende la stessa tenuta del nostro Paese come nazione. La domanda del Sud di livelli e qualità simili nei servizi pubblici, nonché di trasferimenti addizionali a scopo di sviluppo—questo afferma l’articolo 119 della Costituzione —è fondata su un condivisibile principio di solidarietà nazionale. Ma incorpora anche la richiesta di continuare con l’andazzo di oggi, di usare servizi e trasferimenti in modo inefficiente e clientelare, senza alcuna ricaduta positiva in termini di sviluppo. E la domanda di autonomia fiscale del Nord sicuramente è motivata da insofferenza per il vincolo di solidarietà nazionale (politici siciliani: che cosa intendete quando parlate di «autonomia»? Essa vuol dire una cosa chiara—fare da soli—per una regione con un prodotto pro capite superiore alla media nazionale; una cosa alquanto diversa per una regione i cui consumi sono sostenuti da trasferimenti provenienti dal resto del Paese).

Ma contiene, la domanda del Nord, anche la sacrosanta richiesta di controllare che le risorse provenienti dalle loro regioni siano utilizzate in modo efficiente, per promuovere sviluppo. Sono conciliabili queste due domande? Se prendiamo le loro motivazioni buone, certamente sì. Ma per conciliarle occorrono visione e idee forti su come innescare sviluppo autonomo nel Mezzogiorno: insomma un ceto politico e tecnico di grande qualità. E qui si apre una straordinaria occasione per il Partito democratico. Ci saranno ovviamente tensioni tra la Lega e la parte meridionale del Pdl. Se il Pd ha veramente vocazione maggioritaria, se veramente antepone gli interessi del Paese a quelli del partito, non ceda alla tentazione di esasperare le fratture nella coalizione di governo, ma si impegni in Parlamento a trovare una mediazione alta, una soluzione che salvaguardi l’unità nazionale componendo le «parti buone» delle domande che provengono dal Nord e dal Sud

(da www.repubblica.it)

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