venerdì 9 maggio 2008

Tra Veltroni e D'Alema un duello déjà vu

Se è lecito formulare un invito amichevole e disinteressato al Pd e, più in generale, a centrosinistra e sinistra, consiglieremmo di evitare come la peste il rischio di cadere nel ridicolo. Un rischio serio.

Perché non si parla di una possibilità tutto sommato remota, o di qualche smagliatura di troppo, ma di qualcosa che sta già capitando. Come se una sconfitta più grave ancora di quanto dicano i risultati elettorali non avesse insegnato proprio nulla, e tanti, troppi, piuttosto che fermarsi a riflettere con la necessaria umiltà si lasciassero prendere da una coazione a ripetere tanto grottesca quanto, a quel che sembra, irrefrenabile. Lasciamo pure da parte, dunque, interrogativi epocali come quello avanzato ieri in un titolo del Manifesto, secondo il quale la sinistra radicale dovrebbe finalmente prendere il toro per le corna, risolvendosi una volta per tutte a stabilire se sta con Massimo, inteso come Massimo D'Alema, o con Tarzan, inteso come il protagonista di tante occupazioni di case a Roma («E' vietato, ma Tarzan lo fa» recitava il suo slogan elettorale) che oggi siede solo soletto nell' aula di Giulio Cesare.

E lasciamo perdere anche le velenose disfide sotterranee per guadagnarsi una poltrona nel costituendo governo ombra in cui, apprendiamo dalle cronache, sarebbero impegnati molti valorosi esponenti del Pd, a quanto pare immemori del fatto che lo shadow cabinet all'italiana faceva già sorridere quando il Pci se lo inventò sul finire degli anni Ottanta, e del tutto impermeabili all' idea che faccia sorridere ancora di più vent'anni dopo, quando, oltre tutto, il governo vero Silvio Berlusconi lo mette su in una manciata di giorni. Parliamo, piuttosto, di cose serie: di cose serie che però si presentano in un alone di ridicolo, senza per questo risultare particolarmente divertenti.

E cerchiamo di parlarne pacatamente, evitando di rifugiarci nell'antico adagio marxiano secondo il quale nella storia le tragedie si ripresentano sì, ma in forma di farsa. Gli interessati fieramente lo negano, ma non c'è bisogno di attaccarsi ai più scanzonati dei retroscena giornalistici per prendere atto che la sconfitta elettorale ha riaperto, nel Pd, il più antico e classico dei duelli postcomunisti, quello che, tra una tregua d'armi e l'altra, da vent'anni e passa — ma verrebbe da dire: da una vita — vede protagonisti Massimo D'Alema e Walter Veltroni. C'è in proposito una letteratura sconfinata, che scandaglia ogni aspetto, politico e ancor prima umano, della contesa, e minuziosamente ne registra ogni passaggio, talvolta cercando di darle un senso compiuto, più spesso limitandosi alla cronaca, seppure assai particolareggiata. Chi vuole può consultarla. Ma temiamo che la platea degli appassionati all'argomento si sia, con il trascorrere degli anni, vistosamente ridotta, e, soprattutto, che il risultato di queste elezioni non sia il miglior viatico per rimpinguarla. Nemmeno in quel 30% e passa di elettori che hanno votato per il Pd.

E che probabilmente non sono proprio entusiasti all'idea di assistere all'ennesima puntata di una storia inutilmente infinita, che si dipana sempre secondo il medesimo copione, con gli stessi primattori e, grosso modo, gli stessi comprimari. Tutti un po' invecchiati e più stanchi, ma non per questo disposti a deporre le armi. Nonostante il Pci non ci sia più, e neanche il Pds e, se è per questo, non ci siano più nemmeno i Ds, e il grosso della famiglia sia trasmigrato in un più ampio partito contenitore guidato da Veltroni. Colpisce, stavolta, la rapidità inusitata con cui D'Alema ha riaperto ostilità che a dire il vero non si erano mai chiuse, ma soltanto sopite: nemmeno il tempo di leccarsi le ferite, di rincuorare le truppe, di cominciare a guardarsi un po' dentro, di stabilire, tutti insieme e ciascuno per sé, quali siano le origini e le responsabilità della sconfitta.

Ma colpisce anche il merito strategico, chiamiamolo così, della contesa: se cioè (tesi D'Alema) si debba ritornare al degasperiano «Mai soli», o alla togliattiana strategia delle alleanze, e quindi aprire tutti i canali possibili, con la sinistra radicale ma pure con l'Udc e anche con la Lega, di nuovo «costola della sinistra », nella speranza che prima o poi il centrodestra ricominci a litigare; o se piuttosto (tesi Veltroni), si debba restare fedeli all'ispirazione originaria del Pd, riassumibile nell'aureo motto «Meglio soli che male accompagnati», senza per questo cedere, ci mancherebbe, alla tentazione dell'autosufficienza. Non è necessario imbarcarsi in ragionamenti particolarmente seriosi per sottolineare che il Pd e soprattutto i suoi elettori — quelli conquistati dalla novità del progetto così come quelli del voto utile — avrebbero diritto, in materia di tattica e di strategia, a un confronto un po' più sostanzioso. Di quelli, per intenderci, che si aprono, dopo una sconfitta, in un partito vero, non liquido e nemmeno gassoso, non plebiscitario e nemmeno oligarchico, ma dotato delle sedi istituzionali per discutere, contarsi e decidere che cosa e chi rinnovare. Confronti duri, talvolta anche drammatici, e non sempre ispirati ai canoni della «bella politica». Ma raramente esposti al rischio del dèjà vu, che in politica, come nella vita, minaccia sempre di trascolorare nel ridicolo.

Paolo Franchi (da www.corriere.it)

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