DI ANDREA BONANNI (www.repubblica.it)
COME capita a certe zitelle un po' inacidite, questa Europa che ha paura di cambiare e di sognare in proprio si è perdutamente innamorata di Barack Obama. Si è invaghita della sua capacità visionaria, della sua leadership, della sua giovinezza, della sua voglia di novità. Di tutto ciò che, in fondo, manca così dolorosamente a noi europei. Il discorso di ieri a Tiergarten, di fronte a una marea di berlinesi entusiasti, suggella un amore che era nell'aria da tempo. Può darsi che Obama diventi il nuovo Kennedy americano: di certo, da ieri, è il nuovo Kennedy europeo.
Neppure Bill Clinton, che all'Europa ha dato molto guidandola con mano ferma nel labirinto delle guerre balcaniche, era riuscito a suscitare tanto entusiasmo. Neppure Reagan e Bush padre, che avevano reso possibile la riunificazione delle due Europa. Qualche settimana fa gli osservatori atlantici notavano con sorpresa che se gli europei potessero votare alle elezioni USA, Obama avrebbe già comodamente in tasca la vittoria. Si potrebbe aggiungere che, se gli europei potessero eleggere un proprio presidente, probabilmente il candidato americano straccerebbe tutti i rivali europei.
L'ultimo sondaggio Gallup condotto in Europa rivela che il sessanta per cento degli inglesi, il sessantaquattro per cento dei francesi e il sessantadue per cento dei tedeschi sperano che Obama vinca le elezioni. Il povero McCain è surclassato: lo vogliono solo il quindici per cento dei britannici, il quattro per cento dei francesi e il dieci per cento dei tedeschi. Oltre alla straripante popolarità di Barak, queste cifre confermano che l'opinione pubblica europea è ormai di gran lunga più omogenea e coesa di quella americana. Anche se il momento in cui potremo eleggerci un presidente appare ancora lontano.
Ma l'innamoramento degli europei non è senza motivo. Non si tratta solo dell'infatuazione per un candidato bello, giovane e visionario. Se indubbiamente pre-esisteva un fattore immagine, ieri Obama lo ha riempito di sostanza, con una abilità e una sottigliezza che sembrano smentire quanti gli rimproverano mancanza di esperienza e ingenuità nelle questioni internazionali.
Innanzitutto, dalla tribuna berlinese, Obama non ha parlato ai tedeschi, come avrebbe fatto qualsiasi altro presidente americano (e come in parte fece lo stesso Kennedy nel suo famoso "ich bin ein Berliner"), ma ha parlato agli europei. Tutti i messaggi che ha lanciato, dalla necessità di abbattere i muri a quella di ricostruire una vera solidarietà atlantica, dalla richiesta di aiuto in Afghanistan all'apertura verso la Russia, dalla costruzione di una società aperta e globale all'impegno per combattere il riscaldamento del Pianeta, avevano come interlocutori l'America e l'Europa, intesa in modo quasi naturale come quell'"unicum" che vorrebbe essere, e che non è.
Il secondo regalo che Obama presenta agli europei, è un atto di umiltà assortito al riconoscimento esplicito degli "errori" di George W. Bush. E' vero che l'uomo dell'Illinois parlava da candidato, e non ancora da presidente. Ed è ovvio che certe ammissioni sono più facili in questa veste. Ma ci vuole comunque coraggio sul fronte interno, e un notevole carisma, per permettersi in piena campagna elettorale di andare all'estero a dire: "So che il mio Paese non è perfetto. Ci sono state occasioni in cui abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti. Abbiamo fatto degli errori", e per ammettere che l'invasione dell'Iraq è stata "ingiusta".
Il terzo gesto di seduzione di Obama verso gli europei è certamente nel riconoscimento che la lotta al cambiamento climatico deve essere una priorità condivisa anche dagli Stati Uniti. L'inizio del divorzio tra Bush e l'Europa avvenne con il rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto. Un gesto che a molti parve l'atto di tracotanza di una iper-potenza che non vuole pagare il conto dei danni che produce, proprio mentre gli europei si sobbarcavano l'onere gravoso di tagliare le emissioni e di intraprendere in solitudine la strada in salita della terza rivoluzione industriale. Il discorso di ieri sembra promettere la ricomposizione di una ferita strategica che non è stata meno dolorosa dei quella irachena.
Obama seduce. L'Europa è sedotta. Non resta che rispondere all'eterna e banale domanda: ma sarà poi vero amore? Da parte europea, ci sono tutte le premesse per rispondere di sì. Da parte americana, ammesso che Obama vinca davvero le elezioni, probabilmente la risposta è più complessa e legata a molti fattori: una crisi economica che naturalmente alzerà il tasso di protezionismo e di egoismo nazionale, una "costituency" democratica che tradizionalmente è più sensibile alle spinte isolazioniste; la difficoltà di creare un legame privilegiato con la vecchia Europa a scapito delle nuove e rampanti potenze orientali; la oggettiva divergenza di interessi su temi cruciali, non ultimo il rapporto euro-dollaro. Di certo, se c'è un uomo che promette di saper volare alto, sopra l'orizzonte accidentato di tante contingenze avverse per affermare una visione comune, quello è Barak Obama. E in fondo è proprio perciò che gli europei, non potendo votarlo, lo sognano.
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